Uno dei consigli più frequenti e meno richiesti che si ammanniscono a chi scrive è quello di non rovistare nel ripostiglio di immagini e soluzioni ormai usurate: dunque niente polvere che danza nei raggi di sole, o raggi di sole polverosi, niente fiato che si condensa in nuvole bianche, niente lame di luce che filtrano da veneziane o albe striate che inondano la stanza.

La narrativa è così, un esercizio difficile. Ti costringe a fare sempre un passo in più. Per esprimere ciò che anche la scrittura ha l’ambizione di cogliere, gli altri linguaggi possono contare su mezzi e possibilità maggiori: il sonoro, l’immagine... La coloritura di una battuta recitata da un attore riposa soprattutto sulla sua inflessione di voce, espressione, gestualità. La parola scritta deve riuscire a racchiudere tutto ciò con una povertà di mezzi disarmante. Questa ambizione, che sta al cuore del problema “scrivere - come e perché”, tende i nervi, tempra sensibilità, seleziona il valore dei risultati sulla base di quanto si è stati abili a scoprire il mondo negli interstizi tra il convenzionale e il visibile.

Eppure alzi la mano chi non si lascia sedurre ogni volta da questa storia delle lame di luce. Il giorno striato che s’imprime sulle pareti e via dicendo.

Io ci vado pazzo. Che posso farci. Colpa di “American Gigolo”.

L’ho rivisto di recente. Uno dei miei film “estivi”. La scena clou, per me, non è quella citata da tutti in cui a recitare sono le giacche e camicie di Armani gettate sul letto, col pettoruto Gere che si massaggia le gengive di coca e canticchia “The Love I Saw in You Was Just a Mirage” di Smokey Robinson & The Miracles. Manifesto del dandismo contemporaneo compromesso con l’edonismo anni Ottanta... Macché!

La scena memorabile è quella che segna il punto di giuntura tra il prima e il dopo nella parabola calvinista di Julian Kay. Eccolo al centro del suo appartamento A.D. Style. Deve trovare la prova che rischia di incastrarlo per un omicidio che non ha commesso. E per trovarla è costretto, materialmente e simbolicamente, a distruggere la scenografia che finora gli ha fatto da involucro e scudo. Inizia piano, gesti frenati da una calma tesa, sposta un vaso qui, un posacenere là. Guarda dietro un quadro strategicamente poggiato in terra, non appeso - è ancora in fase di costruzione, di crescita, di arredo, il nostro Julian. “Era”. Povero, tutto finito. Ci dispiace vederlo così. E soffriamo con lui quando lancia il suo grido improvviso, di frustrazione, di resa, e spacca il vaso contro un mobile. Strappa lo stereo dalle prese di corrente. Squarcia una tela e scaglia via la cornice. Ha capito. Ha continuato a sperare, ostinato, mentre si aggirava ancora felino per il salone, ma poi ha capito di essere fottuto.

E su tutto, su tutta questa lunga sequenza magistrale, la mano di Paul Shrader gli incombe addosso dall’alto come il grande ventilatore che affetta l’aria, e il soffio delle pale si fa sempre più intenso, affannato, ossessivo, fondendosi con i sintetizzatori cupi e incalzanti di Giorgio Moroder.

E su tutto, su tutta la sala, sugli oggetti, sugli abiti impeccabili e sul volto di Gere in cui la paura finalmente scompiglia la fissità di quei lineamenti arroganti, le veneziane tatuano strie di luce e ombra. Il disegno dell’intera scena è come criptato, filtrato da un’interferenza, la distorsione elettrica sprigionata dal punto d’incontro tra il fulgore di Los Angeles e la sua anima nera, tra il Posto al Sole e la sua costante tentazione di farti fuori, anche se ci hai già messo mezzo piede dentro. Non si fondono, questa luce e quest’ombra. Non c’è l’essenza magmatica di una realtà dove tutto si mescola e vince chi sa maneggiare con minor fatica la dicotomia bene male, venendone a patti. Shrader è manicheo. Bisogna scegliere. Ma prima espiare. Da questo momento, Julian non lo vedremo più tutto acchittato in seriche nuance, ma con un velo di barba, un maglioncino a pelle, una camicia stazzonata... Quando alla fine lo ritroveremo ridotto in cattività, la fronte premuta contro il vetro del parlatorio in carcere, infagottato nell’orrenda tenuta celestrina dei detenuti, e Lauren Hutton dall’altra parte che gli ha appena salvato il culo barattandolo con quello del marito politico, non tireremo un sospiro di sollievo.

Ci piaceva com’era. Il “miraggio d’amore” a pagamento di taglio sartoriale, fatto a fette dalla crudele Los Angeles.
Più adatto a visioni serali che pomeridiane.
Per il pomeriggio c’è “Scandalo al sole”.

To be continued...