In occasione della recente uscita del suo ultimo romanzo, WestEgg ha intervistato Leonardo Colombati: modelli e ispirazione, stile e disciplina, scrittura e revisione... una chiacchierata a tutto braccio inseguendo le suggestioni di un'ennesima estate perduta.
Perché «la letteratura e la nostalgia sono nate insieme».


copertina Leonardo

 


Partiamo dal titolo,
Estate. Per restare nei confini della «retorica sapienziale delle stagioni» (come scrive Luca Ricci ne Gli autunnali), Estate è subito metafora di un incanto perduto, di un mondo dorato fatto di panini all’astice da inserire nel Beach Menu. In questo senso, più ancora che per i riferimenti all’albergo e alla Costa Azzurra, il nume tutelare del tuo romanzo può essere considerato Scott Fitzgerald?

L’hotel in cui ambiento il romanzo deve, sin dal suo nome, più di qualcosa all’albergo di Cap d’Antibes dove si svolge Tenera è la notte; quell’Hôtel des Etrangers con la facciata rosa pallido, la terrazza dove ci si ubriaca al tramonto, le siepi, i vialetti, il bosco… Ce n’è poi un altro, sempre letterario, sempre lussuoso e sempre in Costa Azzurra: l’Hôtel Mirana, di cui è proprietario il padre di Humbert Humbert, l’aguzzino di Lolita Haze – un mondo luccicante di panorami marini e principesse russe decadute. In realtà l’albergo di Jacopo D’Alverno è in Italia; e anche se nel romanzo non ne indico l’esatta ubicazione, da qualche indizio si può arrivare a capire che si trova all’Argentario. Ma è vero che la mia estate è tipicamente fitzgeraldiana: l’alone di luce che emanano i Diver agli occhi della giovane Rosemary… Se devo pensare a un mondo dorato, mi vengono in mente le livree dei bombi e le corazze scintillanti di certi calabroni: l’Eden, per me, è sotto un cielo perennemente estivo, d’un azzurro smaltato, e pullula di moscerini al sole. È così che ricordo certi momenti della mia infanzia – il mio tempo perduto è tutto in un breve arco che va da giugno a settembre, quando i bagnini tolgono gli ombrelloni e gli aghi di pino marciscono nelle piscine.

C’è un punto nel romanzo, a pagina 38-39, in cui Astrid, la «dea bianca» per dirla con Robert Graves, tira fuori una lettera d’amore che Jacopo diciassettenne le aveva scritto. La lettera è piena del cattivo lirismo tipico di quell’età: i piccoli seni turgidi, i denti perla, la lingua rossa come una fiamma. Possiamo dire che questo è il manifesto rovesciato della tua letteratura?

Spero sia il manifesto rovesciato non solo della mia, di letteratura. Ma è vero che il lirismo e il “frammentismo” sono due delle più importanti cause della cattiva reputazione di cui il romanzo ha goduto qui da noi in Italia per molti anni. Debenedetti fa risalire questa nostra cattiva abitudine al gruppo di scrittori che negli anni Dieci del secolo scorso si riunivano attorno a «La Voce» di Prezzolini; l’arte, per loro, era appunto uno sforzo lirico – e un simile sforzo (va da sé) non può durare a lungo come un romanzo. Era una posizione che derivava dalle direttive che aveva dato Croce, secondo cui bisognava cercare in un’opera letteraria quei rari momenti poetici – o d’«intuizione cosmica», come diceva lui – in mezzo alla “prosa”, e cioè a tutto il resto, che veniva considerato mero tessuto connettivo. È ovvio che con questo metro bisognerebbe strappare nove pagine su dieci di qualsiasi romanzo, pure di Madame Bovary. Ma è ragionevole supporre che risiede proprio nel tessuto connettivo di un romanzo – nelle sue cerniere e nei suoi raccordi – il germe della sua grandezza (o della sua mediocrità). E non è un caso che i seguaci (anche involontari) dell’idea del bel frammento abbiano spesso fatto ricorso all’autobiografismo, poiché questo genere consente la massima esplosione del lirismo nella prosa e, parallelamente, aiuta a eliminare i riempitivi.

Da qualche anno hai fondato la Molly Bloom insieme a Emanuele Trevi, scuola di scrittura con sede a Roma, Milano e Lecce. Come influisce il tuo essere, tra le altre cose, un teorico e tecnico della narrativa sul tuo processo creativo e sull’esercizio stesso della scrittura? Non a caso una domanda simile viene spesso rivolta anche agli editor: molti ritengono che difficilmente un buon editor possa essere un buon romanziere, perché rischia di perdere la spontaneità della prima stesura... Qual è la tua opinione in merito?

Io a questa favola della spontaneità della prima stesura credo poco: ogni pagina, dalla prima all’ultima bozza, è per me una deliziosa tortura. Quando scrivo di getto più di una pagina di fila, di solito è materiale scadente. I libri che ho letto appesantiscono ciò che scrivo? A mia discolpa posso solo dichiarare che – contrariamente a quanto insegnava Italo Calvino – non ho mai pensato che la leggerezza sia di per sé un valore, nell’arte come nella vita. Manganelli diceva che «uno scrittore può essere oscuro perché è affascinato, è chiamato da una sorta di complessità che solo attraverso l’oscurità è conseguibile». Pochi sono stati gli scrittori oscuri, dalle nostre parti. Gadda lo fu, senza dubbio. E con esiti sensazionali. Ma in qualunque corso di scrittura una delle regole d’oro è quella per cui, nella revisione di uno scritto, bisogna asciugare il testo dagli aggettivi, ad esempio. Si giungerebbe, così, alla chiarezza, con la stessa tecnica utilizzata da uno scultore che lavora il marmo: la “prosa leggera” sarebbe dunque il residuo di un discorso più lungo, più incerto, più complesso. Ne Il castello di Udine, proprio Gadda ci mostra che non è esattamente così. A un certo punto, Gadda descrive dei colpi di cannone sulla roccia delle montagne con questa frase: «Lo spasimo di ogni rovina». In un suo scritto posteriore, chiarì questo passaggio: «Non si tratta, nella mia intenzione, di animismo, cioè “la roccia soffre per la cannonata ricevuta”, sì di mera contrazione in genitivo d’un complemento d’agente: “lo spasimo prodotto in noi da ogni rovina”. Spasimo = tensione dell’animo provocata dall’aspettazione d’un verdetto di vita o di morte, a ogni colpo». Ecco che qui, togliendo, si complica. Ma per ottenere un simile effetto bisogna conoscere quelle «frigide regole», quelle «calcolate astuzie», quelle «macchinazioni argute» di cui Manganelli parlava nel suo Trattatello di retorica. Insomma, bisogna studiare. E leggere. Molto e bene. Scrivere presuppone necessariamente che si sappia leggere bene. Il mito dello scrittore ignorante o selvaggio e di genio è un’impostura.

 

Albergo cita 800


C’è un passaggio che arriva quando Jacopo e Astrid si rincontrano in farmacia dopo anni e decidono di prendere qualcosa da bere. Il passaggio è questo: «si è alzata per andare in bagno e, nell’ammirarle il culo, qualcosa – l’istinto predatorio, una scintilla di vitalità – è sembrato riaccendersi in me. Ma non fatevi un’idea sbagliata: Astrid è solo la persona che sta salvando il mio, di culo; è l’unico motivo per cui non mi sono ancora sparato». Una sequenza che può ricordare da vicino il Roth di
Exit Ghost, quando il vecchio Zuckerman incontra Jamie Logan e sente riaccendersi la morsa del desiderio. L’impressione è che Roth sia il tuo Tolstoj, del quale magari vorrai sbarazzarti anche tu, o forse no. Quanto conta per te, in proporzione all’abilità stilistica, la capacità di disciplinare il materiale, quel controllo su temi tanto ingombranti che toccano la famiglia, i condizionamenti del sangue, le origini, di cui proprio Roth e Bellow sono stati forse i maestri?

Lo scrittore che manca di controllo, e che dunque non sa dare una forma al proprio materiale, è uno scrittore mediocre. Ma ci sono le dovute eccezioni. Mi viene in mente il Conrad di Cuore di tenebra, con quell’ipertrofica tirata di Marlowe; così come il Bellow di Il dono di Humboldt. Bellow è il campione della digressione; i suoi romanzi sono slabbrati, fanno acqua da tutte le parti, sembra sempre che non stiano su insieme. Il suo ultimo grande libro, Ravelstein, inizia addirittura con una specie di lunga nota a piè di pagina. Eppure, quando pensi che stia andando definitivamente fuori controllo, la stanza dei giochi non torna proprio in ordine, ma comunque riacquista una parvenza di pulizia. La verità è che tutti i suoi libri sono ricostruzioni dei processi mentali dei loro protagonisti. Non è questione di stream of consciousness joyciano. L’ebreo che va pellegrino nel mondo crede che la salvezza può arrivare soltanto dal “pensare bene”, ovvero dall’arrivare alla radice delle cose. Il pensiero è l’unica forma di virtù. I romanzi maggiori di Bellow – Herzog, Il dono di Humboldt, Il pianeta di Artur Sammler, Ravelstein – sono cunicoli costruiti per accedere nel luogo dove si formano le idee di Moses Herzog, di Charlie Citrine, di Artur Sammler, di Abe Ravelstein, tutta gente il cui unico scopo è quello di evolversi intellettualmente per raggiungere la capacità di esprimere le “giuste opinioni” sulle cose del mondo. Il resto è contorno. Per me Bellow resta il modello più alto, tra i romanzieri del secondo Novecento. Ogni volta che devo cercare la giusta voce da attribuire a un mio personaggio a cui voglio delegare il compito di raccontare la storia (venendo meno alla mia passione per la narrazione in terza persona), torno ai suoi romanzi.

Due elementi centrali del romanzo sono il concerto di Bruce Springsteen e l’udienza del processo di Anders Behring Breivik. Facile capire la presenza di Springsteen, figura per te fondamentale, anche di recente, con Like a Killer in the Sun; meno ovvia l’incursione di una figura luttuosa come quella di Breivik. Si tratta comunque di dati che, nell’ecosistema di una narrazione, sprigionano una grande forza centripeta, capaci di fagocitare tutto il resto, e che si collocano ai poli opposti dell’aneddotica su consigli&suggerimenti di scrittura; cose come: scrivi solo di cose che conosci… oppure scrivi tenendoti alla larga dal tuo diario. Entrambi, il grande poeta del rock e il più efferato killer europeo, rivolgendosi al proprio pubblico un’ultima volta, esprimono forse quel senso di finitezza che intride il romanzo e con il quale Jacopo fa i conti?

La maggior parte delle volte scrivo per potermi occupare proprio di cose che non conosco, che siano in Amazzonia, in Norvegia o sulla luna (tutti luoghi che non ho mai visitato) o nelle profondità del cosiddetto inconscio (una luogo di villeggiatura che di solito tendo a escludere dai miei itinerari).

Venendo più strettamente alla trama, c’è una scena in cui Jacopo, durante l’incendio dell’albergo, salva prima Galatea, una cliente bambina, e soltanto poi la moglie e la figlia. La scena produce un innesco emotivo simile a quello di Forza Maggiore, il bellissimo film di Ruben Östlund, vincitore del premio della giuria a Cannes 2014. È solo un caso, o anche a giudicare dalla più recente produzione narrativa italiana (Francesco Pacifico, Luca Ricci…) è vero che ormai lo sguardo è rivolto prevalentemente alla fine delle cose – un amore, la giovinezza, la prosperità ecc. – piuttosto che al loro inizio o fase culminante?

Duemilaseicento anni fa, Saffo rimpiangeva il tempo in cui era innamorata di Attide e scriveva: «Mi sembrava / che fossi una bambina / così piccola, / e acerba». La letteratura e la nostalgia sono nate insieme. Così come prima di lui Saffo, Teognide, e l’anonimo poeta che per otto libri parla per bocca di Ulisse, avanti fino allo Shakespeare dei Sonetti e al Narratore della Recherce, il mio Jacopo si accorge che il proprio paradiso è, ahilui, un paradiso perduto.

colombati estate slider box


Le ultime due domande non hanno a che fare direttamente con
Estate. La prima riguarda il tuo rapporto con l’editor: incontro di boxe, dialogo pacifico, sano compromesso?

Ho iniziato a progettare Estate più di dieci anni fa. A lungo mi sono trastullato con l’idea di dotare di un’aura romanzesca l’idea originaria, che poi era un’attualizzazione del tema di Lord Jim, ovvero le conseguenze di un atto di vigliaccheria nella vita e nel cuore di un protagonista buono ma privo della necessaria forza di volontà per resistere alle tempeste della vita. Avevo accumulato molte pagine, ma poi mi sono bloccato e ho iniziato a scrivere un altro romanzo, 1960. Quando ho ripreso a scrivere Estate, l’ho fatto sotto il rigido controllo dei miei due soliti lettori-cavia: Saverio Costanzo e Alessandro Piperno. Arrivato a una bozza piuttosto avanzata, l’ho sottoposta a Carlo Carabba, che me l’ha contestata in molti più punti di quanto mi sarei aspettato. Ci sono rimasto male, ho fatto l’offeso per un po’, poi ho capito che in molti casi aveva ragione lui; così ho riscritto tutto per l’ennesima volta, e non mi sono più fermato a riscrivere, riscrivere, riscrivere ancora. Ho ventotto versioni di Estate.

Quest’ultima, invece, è un po’ da denti perlati e seni turgidi: cosa cerca Leonardo Colombati nella letteratura?

Me stesso.