Se vi chiedono cosa ne pensate di Zero K, l’ultimo romanzo di Don DeLillo, potete rispondere subito che no, i postmodernisti non c’entrano un tubo.

Perché Zero K è il sequel naturale della Lettera di Lord Chandos di Hugo von Hofmannsthal. Ma nel senso che DeLillo ha scritto proprio il due? No, non in quel senso là. E allora perché? Perché tutti e due si rendono conto di una cosa precisa e la mettono al centro della loro narrazione: la filosofia del Dizionario è destinata a crollare a causa del suo stesso presupposto.

Il fatto è questo: ogni storia ha i suoi punti fissi, e anche la storia della letteratura ha i suoi. Non sono poi molti, e si tratta spesso di manie da etichetta, ma ci sono e sono utili. Si tratta di codici, di riferimenti, di impliciti.

Funzionano come la scatola che tiene in mano Jerry MaGuire quando fa la piazzata al capo e si licenzia dal lavoro: contengono tutta una serie di oggetti legati tra loro da un medesimo contesto. Su una di queste scatole, accanto alla scritta FRAGILE (letta sia all’italiana con la e, sia all’inglese senza e) sta scritto DiscrepanzaLinguaggioMondo:1902BriefvonLordChandosHugovonHofmannsthal. Ecco, la dentro c’è Paul Auster e c’è Wittgenstein, c’è Platone e c’è Queneau. È la scatola che apri per scoprire i legami della realtà con il modo di raccontare la realtà. Tutto fila liscio, per così dire, fino al 1902. Poi crac. Si rompe la fede nella saldatura tra parole e cose o, per dirla con il Wittgenstein del Tractatus, tra proposizione e fatto. In alti termini ancora, implode la fede nel dizionario come archivio: la verità della cosa non è nella sua definizione.

Hugo von Hoffmanstahl ha immaginato questo giovane promettentissimo scrittore, una cosa tra il nuovo Proust e Cyrano, che improvvisamente decide di non scrivere più. E non perché soffra della crisi da pagina bianca, tutto al contrario: perché la sua vita interiore è talmente violenta, intensa, accesa, che la scrittura gli sembra insufficiente a rappresentare la pienezza che ha dentro di sé. Appunto: discrepanza tra parole e vita. Come antidoto abbandona Platone (il riferimento ovviamente è al Cratilo e alla sua riflessione sulla orthotes onomaton, la giustezza dei nomi) e si rivolge ai grandi prosatori: Seneca e Cicerone. In gioco ovviamente c’è quel tipo di conoscenza, che si poggia un po’ anche su un modo di pensare arcaico, intesa come dominio: conoscere la definizione di qualcosa è possederne la verità: possederne la verità equivale a dominarla.

Ecco, tutto Zero K è risucchiato gravitazionalmente da questo buco nero, il dominio. Dominare le parole e così dominare le cose. Everybody wants to own the end of the World. Queste le parole che stanno sulla soglia del nuovo romanzo dell’autore di Underworld. In realtà in questo caso sarebbe meglio dire “l’autore di Point Omega”. Già, le stesse atmosfere rarefatte e la stessa prosa analitico-filosofica più che lo stridore metallico delle rotaie su cui passava la metropolitana di Libra.

Everybody wants to own the end of the World: questa è l’eredità che Ross Lockhart, una finanziere stile Gordon Gekko, lascia a suo figlio Jeffrey. Ross ha deciso di elargire fondi alla Convergence, un’azienda tecnologica con sede nel deserto del Kazakistan, che ha trovato il modo di conservare criogenicamente i corpi e le coscienze fino al giorno in cui la medicina non si sarà sviluppata al punto da individuare ogni cura. E così la narrazione di DeLillo è un’altalena tra quello che accade in questa stazione un po’ post-futurista un po’ New Age, un po’ Solaris e un po’ Passengers (quello con Jennifer Lawrence), e le meditazioni di Jeffrey.

Nella traduzione italiana di Federica Aceto:

Mia madre aveva un rullo per togliere i pelucchi dai vestiti. Non so perché quell’oggetto mi affascinasse tanto. Guardavo mia madre che guidava quell’aggeggio sulla schiena del suo cappotto di panno. Provavo a definire la parola rullo senza sbirciare il dizionario. […] Oggetto cilindrico rotante atto a raccogliere piccoli pezzi di stoffa che spuntano dalla superficie di un indumento.

Oppure ecco un altro caso tipico di “racconto alla Jeffrey”:

Quando trovai un appartamento a Manhattan, e un lavoro, e poi mi cercai un altro lavoro, passavo interi fine settimana a camminare, qualche volta in compagnia di una fidanzata. Ce n’era una così alta e magra che sembrava pieghevole. Viveva all’incrocio tra la First Avenue e First Street. Non sapevo se il suo nome si scrivesse Gale oppure Gail, ma decisi di aspettare un po’ prima di chiederglielo, e così un giorno la pensavo come Gale, un giorno come Gail, cercando di stabilire se questa cosa influenzasse il modo in cui pensavo a lei, il modo in cui la guardavo, le parlavo, la toccavo.

Il fatto è che siamo talmente bagnati dal linguaggio da non poter esistere al di fuori. I nostri pensieri? Niente, vanno dentro anche quelli. Una potenza e pervasività del linguaggio che avvicina Jeffrey al Nathan Zukerman di Exit Ghost.

Il vecchio Nathan è invitato da Billy Davidoff e Jamie Logan, la coppia con la quale per un anno ha accettato di scambiare casa, per seguire i risultati delle elezioni. Accetta, ma non esattamente per il futuro della propria nazione.

Accetta Nathan, per quella texana spigliata che ha riacceso in lui la morsa del desiderio. Tornato in Albergo, consapevole dell’impossibilità di qualsiasi suo appagamento, Zuckerman scrive i dialoghi mai avvenuti tra Lui e Lei. E non per sublimare. È che vale per Nathan Zuckerman quello che Ross Posnock, in quello che è forse il più bel saggio sulla letteratura di Philip Roth Philip Roth Rude Truth. The Art of Immaturity, intuisce per l'anziano professore di lettere classiche Coleman silky Silk, protagonista di Human Stain; Coleman e Nathan sono entrambi maestri della revisione di sé.

Pura fiction quindi. Un termine, tanto per ragionare sul linguaggio alla Jeffrey, che è sentito anche come sinonimo di untruth, invenzione e finzione. Dunque una trama, una costruzione inventata. Eppure fiction è collegato al participio passato del verbo latino fingere, vale a dire fictum. Fictae, guarda caso, è un aggettivo che viene molte volte riferito a Fabulae. In effetti si tratta proprio di una fabula, quella racconta da Nathan. Ma non perché stia raccontando qualcosa di inventato.

È Cicerone a scrivere nel De Officis che le api fingunt il favo modellando la cera. Plauto, nello Stichus, collega ficta con i trucchi delle donne, che ingannano l’aspetto.

Fingere dunque non sembra consegnato ad una dimensione di creazione dal nulla. Piuttosto ad una di ripetizione e di modellamento. Come le api fingunt il favo, come le donne fingono il proprio volto, così il poeta finge la propria fabula. Il racconto non è inventato, né tantomeno falso, ma ripetuto e sottoposto a modificazione, a un trattamento, a manipolazione.

Allora, cosa è accaduto a questa forza propulsiva? È accaduto che dalla parola potente, la parola del rito, la parola che antropologicamente crea legame, si è cercata la parola medica, la parola giusta, la parola precisa. Dalla fiction al dizionario, un sistema che si regola e autospiega con i soli elementi che compongono il sistema da spiegare.

In altri termini, la definizione disinnesca la finzione.

Per dirla con Jeffrey:

Una volta, quando erano ancora sposati, mio padre chiamò mia madre pescivendola. Poteva essere stata una semplice battuta, ma questa cosa mi spinse a prendere il dizionario e cercare il significato della parola. Donna volgare, sguaiata. Dovetti cercare sguaiato. Persona scomposta, scurrile. Dovetti cercare scurrile. Il dizionario mi riportò a sguaiato. Da gaio. Dovetti cercare gaio. Significava allegro, giulivo. Dovetti cercare giulivo.

Un ultima cosa: quando vi chiederanno se Zero K di Don DeLillo è il solito ultimo DeLillo, fate una cosa, ripetete che no, i postmodernisti non c’entrano un tubo (che male non fa) e usate questa definizione qua: Zero K di Don DeLillo è il romanzo che segna la distruzione del dizionario come archivio. Poi aspettate un secondo, e vedete se ne hanno capito il paradosso.