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C'è la russa in odore di grana recente avvolta in una cortina fumogena, ride e sbevazza con una bocca da mostro marino, e ha un rivolo di bistro che cola dall'occhio allucinato – ragazzi, l'umidità a queste latitudini è un flagello divino. Pagine di Henry Miller sfarfallano nell'aria. Che faccio? Mi avvicino? Mi accendo un Montecristo anch'io? Forse più tardi.


L'altra russa è arrivata tre giorni fa, l'ho vista scendere dall'idrovolante con un trolley e una borsa di paglia, passo elastico, canini in bellavista. Di sera pensa ai fatti suoi, si lascia assorbire dal cellulare, non so, la sto ancora studiando. Una pallida silfide di quaranta chili trapiantata in una serra di gente grassa e abbronzatissima. Gira voce che sia un'escort che il resort mette a disposizione dei dipendenti indigeni. Tira tardi la notte, sta lì a fissare i ragazzoni maldiviani e bengalesi che corrono sull'erba sintetica e tirano pallonate a un vecchio Tango.


Che faccio, glielo chiedo? In fondo sono un repeater, un aficionado di quelli col motivo inossidabile – torniamo per i bambini, sai, qui stanno talmente bene... – magari aspetto altre due sere, vediamo se la situazione sviluppa. Intanto spostiamoci lungo i tavoli del bar, sorvoliamo sul ragazzino tedesco che dai sei giorni indossa la maglia di Schweinsteiger. C'è questa idea comune sulla tamarragine dei tedeschi, che qui si posterizza, picchia contro lo sfondo, come le sillabe del loro inglese gutturale. Che faccio, socializzo? I nostri figli sono cresciuti circondati dai loro elettrodomestici, i seggiolini isofix hanno lambito per anni le scocche delle loro automobili, il Sacro Romano Impero Germanico troneggia sui ricordi elementari. Dunque socializzo. E scopro che i tedeschi hanno lo stesso difetto degli italiani: quando sono in vacanza in un posto amano parlare d'altro. Di altri posti, una miriade di altri posti. Due popoli affascinati dall'Altrove. Quanto mi piacerebbe che fosse così. Che faccio? Ci credo? Qualche sera fa pioveva: bello, tranne ovviamente per le coppie in luna di miele, preoccupatissime all'idea di perdere un giorno di spiaggia, perché non avrebbero saputo con cosa barattarlo. L'idea sarebbe di non barattarlo e tenerselo così com'è: un tocco, finalmente, di traumatica realtà locale (urca, l'Oceano Indiano fa la voce grossa, il vento piega le palme, l'acqua scroscia a tal punto che la piscina sembra bollire), ma vaglielo a spiegare. Comunque pioveva, me la tiro un po' al pool bar nel mio pantaloncino stretto, ed ecco che m'incastra la Matrona. Viene qui a villeggiare da quindici anni, non è nemmeno una repeater, ma una specie di nume tutelare del posto, vive ognuno di noi come una propria emanazione o incarnazione, e insomma m'intrappola in un dialoghetto squillante, mentre aspettiamo che servano gli aperitivi.


- Eravamo qui a febbraio, c'è stato sole battente per venti giorni di fila, non ho visto mezza nuvola...
- Magnifico.
Devi sempre servire un superlativo a questo punto, è una questione di buone maniere.
- Due anni fa invece, stesso periodo di adesso, pieno luglio, siamo andati alle Mauritius. Pessima idea, pioveva in continuazione.
- Mascarene.
- Che?
- Le isole. Si chiamano Mascarene. Mauritius è solo un'isola dell'arcipelago. Lei è andata alle Mascarene.
Ho sempre trovato stupefacente la leggerezza con cui gli italiani si procacciano figure di merda, ma devo riconoscere che è praticamente nulla, rispetto alla leggerezza con cui poi le sopportano. La Matrona infatti mette su uno sguardo tra il casual-annoiato e tira dritta senza neanche una piega:
- Ah, sì? Be' invece l'anno prima siamo stati a Lisbona, sempre con mio marito... (chissà perché ha sentito il dovere di precisare).
- C'era una pizzeria favolosa in cui mangiavamo tutte le sere, dietro quella grande piazza...
- Restauradores?
- E non lo so, ma la pizzeria stava in una stradina laterale, davanti a un palazzo fatto così e così...
- Quello è l'Istituto Italiano di Cultura.
Vedo che la mia stronzaggine comincia a venarsi di pedanteria, ma provate a mettervi nei miei panni. Gente che se ne va in giro per il mondo, poi ti fa vedere le foto, e tu chiedi: bello, questo edificio, cos'era? E che ne so. Figa questa cattedrale, come si chiama? Boh. In ogni caso forse sono salvo, arrivano gli aperitivi. La signora è raggiante.
- Ah! Sushi, la mia passione!


La clientela italiana acquattata all'ombra delle palme balza in piedi come al richiamo di un fischietto a ultrasuoni. I fanatici del sushi si avviano al bancone, dove un cingalese dall'aria semiterrorizzata ha allestito un fiammeggiante vassoio di maki e nigiri. Nel giro di cinque minuti sono tornati tutti al proprio tavolo e si destreggiano fra bacchette, ciotole di salsa di soia, wasabi e scaglie di zenzero. C'è quello che tiene una bacchetta per mano. L'altro che gesticolando rischia di accecare i vicini. Accanto a me una tizia sta inscenando una replica di Kill Bill vol. 2, Uma Thurman con le nocche martoriate, una tortura per l'immaginario. C'è una coppia molto stilysh, si vede che vanno a mangiare giapponese tutte le settimane: maneggiano le bacchette con grazia, bravi, molto disinvolti. Glielo spiego che il sushi sarebbe buona educazione mangiarlo con le mani? Troppo sottile? Troppo pedante. Ma forse è proprio la pedanteria che ci salverà da questo tropico impazzito di italiani addobbati Gucci e Cavalli, che discettano di luoghi planetari come fosse sempre e solo casa loro («...è un po' che manco da Dubai», tipo: sono due giorni che non vado bene di corpo), e si sentono chic, up-to-date, ready-to-go, e sono sempre gli stessi, gli stessi di Arbasino, gli stessi italiani di Manganelli, quelli che ti fanno venire voglia di tuffarti dentro il Voyage autour de ma chambre di Xavier de Maistre e non uscirne mai più. Gli italiani di Soldati. Solo questi qui l'aragosta invece di lasciarla intera nel piatto per non turbare la perfezione estetica se la divorano costi-quel-che-costi, così il giorno dopo non hanno rimpianti. Gli italiani ai tropici, gente che non conosce rimpianti. Amabili – perché sono tutti di una simpatia unica – infestatori di paradisi. Ma è tardi, ci reclama la cena sotto una dolce brezza di terra. Una pioggia maughamiana s'intreccia leggerissima alle vibrazioni dei telefonini. Una selva di borsette di Prada, qualche tacco azzardato, poi ressa gentile al buffet, sorrisi automatici davanti a un tripudio di pescato fresco, e la silfide russa sempre più sola sullo sfondo.