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Sono belle, sono belle e galanti le fiere librarie, coi loro protocolli dell'accoglienza, le sale per conferenzieri, l'affabilità dei punti di ristoro: spazi meravigliosamente lisci, intasati ma educati, ugualmente pigri e reattivi, esigono un certo vigore di gamba - mancando affatto, nell'Architettura Celebrativa del Libro, una concessione allo spirito della panca, a un'idea pur vaga di poltrona o chaise-longue - ma sono luoghi dal sapore a tratti deciduo, di una ribalda tristezza, egregiamente immersi nel manchevole incanto di una destrezza mentale un po' scocciata, di una professionalità turbata dal lamento, di una fretta sui margini della compulsione, di un languore che ha tutto fuorché del letterario. E però sono belle, le fiere librarie, una bellezza insieme campale ed epigrammatica, da fiorito necrologio, di quelli che non usano più. Disarmanti per il neofita delle costellazioni editoriali, non così intriganti per l'avvezzo indurito da annose vedette sulle altane dei marchi indipendenti: l'appassionato dovrebbe evitarle o limitarsi a un assaggio semigiornaliero, onde scongiurare i possibili afflati del Tedio, gli assalti di crudeli cefalee, le visite di cortesi attacchi di panico, claustrofobia, librofobia e altre fobie minori ugualmente connesse alla presenza più o meno stringente di pagine stampate, rilegate e ordinate in volumi. Dacché i libri, come gentilmente ti spiegano alcuni esperti del settore, fanno male al cuore e all'intelletto, corrompono l'anima, modificano i piani dell'esistenza. Sarà, ma questo che spacciano come parere garantito non suona troppo convincente: potresti opporre una casistica puntigliosa dei benefici ricavati dallo studio degli ultimi florilegi di cucina gourmet, dalla manualistica venatoria, da quei truci centoni istoriati a donnine nude che pure ami collezionare. Non lo farai perché, ti assicurano i soliti esperti, il libro pare che se la caverà da solo, più o meno come ha fatto nell'ultimo migliaio d'anni. Il mantra degli addetti: Petrarca ci ha messo tre secoli a passare, vedrai che passa pure Fabio Volo. E tuttavia, in questa domenica a Più Libri Più Liberi, sotto lo spezzone di un cielo romano che all'improvviso ha preso un colore molto milanese, non è difficile sorprendere in giro fra i padiglioni gli amici narratori, in ambasce per la presunta crisi della narrativa. Gli amici critici col loro tenue cordoglio per il collasso neurovegetativo della critica. Molti amici editori in piangente contemplazione degli affanni dell'editoria. Aggiungi un paio di amiche fighe con le loro preoccupazioni specifiche e il panorama si occlude senza pietà. Fortuna che ci sono i lettori, che continuano a credersi il sale della terra. Tra questi i bambini piccoli, lettori in fieri ma già da fiera, che vedi accompagnati e divisi in sparute truppaglie, come al Jurassic Park - guarda, il dilofosauro! (edizione Minimum Fax di Malamud), il triceratopo! (lo Sloterdijk di Raffaello Cortina).

Su questo intarsio di infiaccabili speranze e malcelato pessimismo aleggia sovrana un'immagine in stile Ghostbusters: il transatlantico Mondazzoli che prende il largo, spettrale, proiettato verso i cieli della Vergine e altri inarrivabili asterismi, mentre quaggiù, nei loschi corridoi del libro indipendente è tutto un borbottare di nuovi, più leggiadri battelli. La Nave di Teseo. E in effetti gli appuntamenti presso gli stand evocano una disciplina alfanumerica da battaglia navale (Ma non sei davanti a F20? ...Acqua. Ci vediamo a M16. Affondato). A dire il vero il coraggio (strenuo) di questi narratori/critici/editori che dopo un anno sono nuovamente qui, che sono ancora qui con la loro coriacea, testugginosa volontà di resistere ti suscita alla mente le forme aggregate di una Zattera della Medusa, un manipolo in balìa del vasto oceano, onde che obliterano l'orizzonte, e tutti i dettagli di un dipinto che da sempre attizza fantasie romantiche, le più morbose. Perfino il transito di esseri umani nei corridoi dei padiglioni rende l'atmosfera molto fleshy, corposa con una nota quasi cadaverica, il che contrasta sintomaticamente col dato statistico sull'andamento del settore, col "cauto ottimismo" proclamato in questa edizione. Perché in fin dei conti c'è aria di ripresa, dicono gli esperti, ma l'umore generale non sembra voler dismettere la consueta tetraggine - chiamatelo pure "effetto Gèricault": niente è più vitale dei gemiti dei moribondi che non si rassegnano a morire. Puoi cogliere qualche battuta di dialogo tra uno stand e l'altro, e saranno equazioni feroci (Ho letto l'ultimo Lagioia, così adesso so che anche Lagioia è uno scrittore trascurabile) o parodie involontarie, di una perfidia armillare (Ragazzi, ma dov'è lo stand di Fazi? Chi ha visto lo stand di Fazi?). Alla fine qualcuno chiama in causa l'amore per i libri e voilà: la zattera gericaultiana si trasforma all'istante in una Pacific Princess, coi lettori che salpano festosi lanciando coriandoli, l'assistente di bordo distribuisce sorrisi anoressici, Vittorio Sgarbi viene issato su un palco davanti a una sala gremita e fioriscono intrecci di storie editoriali a lieto fine proprio come dentro una puntata di Love Boat. Inalberi un'espressione diffidente, pensi a certi sdegnosi dispacci danteschi: «O voi che siete in piccioletta barca...» e provi a defilarti prima che il personale di guardia agli ingressi riesca a segnarti il braccio col timbro di Cenerentola o del pesciolino Nemo (una sfigata in cerca di riscatto, un sommerso affetto da atrofia muscolare, saranno metafore intenzionali?), ma in quel mentre ti blocca l'amico libraio: "Io martedì non vengo, siamo scemi? Metti che l'Isis..."

Scendi le scale per andartene, un'occhiata riassuntiva all'edificio di Piazzale Kennedy. Eccolo là, il rettangolo pieno di libri, finalmente una cosa neutra - probabilmente è nella neutralità che si annida parte del suo significato, o almeno un'ombra di quel valore decantato dagli esperti. Tu i libri non sei tanto sicuro di amarli. Sai di amarne "alcuni", ma in numero talmente esiguo da scongiurare qualsiasi prospettiva idealista o feticista o pansessuale che sia. Lunedì Alain Mabanckou presenta il suo African psycho in Sala Rubino, nel piazzale certi ragazzoni africani vendono (spacciano?) libelli di poesia africana: non li compra nessuno, perché come ti hanno assicurato gli esperti la poesia non ha più lettori. Allora acquisti uno di questi libelli africani, così trasformi la lettura in vendetta - e anzi cominci a sospettare che il vendicarsi sia una fase apicale del leggere (o quantomeno del leggere poesia). C'è un drappello di addetti, qui fuori, se ne stanno raccolti in cerchio a due passi dall'arena ghiacciata in cui si avventura qualche scarso pattinatore, sezionano dilemmi urgenti come il futuro della graphic-novel e paventano una nuova età di oscurantismo mondazzoliano sbocconcellando tramezzini al tonno. Un tizio di Amnesty International si inserisce al volo, è certo di poter garantire - e anzi certificare, mentre siete lì che aspettate dolenti l'oscurantismo mondazzoliano - la definitiva morte del romanzo. Non ci sono dubbi, stavolta è morto davvero. Punta un dito accusatore, come a dire: e tu che intendi fare? Nella domanda, ti sembra, circolano implicite molte possibilità: puoi confezionargli un abito per la sepoltura (saggio), mummificarlo (saggio accademico), condurre un'autopsia (recensione), imbastire un bel funerale (premio), mesmerizzarlo (convegno), frankensteinizzarlo (pastiche), chiuderlo in un sarcofago (traduzione), aspettarlo redivivo nella valle di Giosafat (fiera). Hai visto mai.

Fabrizio Patriarca